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Siamo persone reali

Una donna di Gaza racconta cosa significa vivere il blocco e l’assedio della Striscia, portando nel corpo, nel dolore e nei racconti la sua esperienza.

Vivere a Gaza durante questa guerra è stato incredibilmente difficile: i bombardamenti continui, lo sfollamento, la fame e la paura sono diventati parte della vita quotidiana. Siamo persone, con corpi, dolore e storie.

In queste condizioni le malattie hanno iniziato a diffondersi rapidamente, soprattutto a causa della mancanza di acqua pulita, cibo e servizi igienici adeguati. Mi è stata diagnosticata l’epatite e avrei bisogno di una corretta alimentazione e di cure mediche, ma ne sono priva. Mancano persino le cose più elementari che potrebbero aiutarmi ad affrontare la malattia, come lo zucchero, ad esempio, qualcosa che potrebbe dare al mio corpo anche solo un piccolo sostegno di energia.

Niente medicine. Niente acqua potabile.

La parte più dolorosa? Sentire di essere un peso, di chiedere l’impossibile, quando in realtà si tratta solo del minimo necessario.

Il mio corpo si indebolisce così in fretta — una stanchezza costante, la testa che gira, e questa sensazione di pesantezza, come se fossi sempre sul punto di crollare, non solo per la malattia, ma anche per la fame.

E non sono sola. Ci sono bambini, donne, anziani — tutti affrontano la stessa situazione. Il cibo è scarso. Gli aiuti non bastano. Ogni pasto diventa un calcolo: come far durare il poco che abbiamo il più a lungo possibile?

La chiesa è diventata il nostro unico rifugio. Hanno cercato di aiutarci con un po’ di cibo, acqua e un posto per dormire. Ma le necessità superavano di molto le risorse disponibili.

Abbiamo iniziato a contare i pezzi di pane, a mettere da parte le porzioni, a far durare tutto un po’ di più.

Sentire dire «C’è un pacco di cibo» ci riempiva di gioia, come trovare un tesoro. Ma quella gioia durava poco, e la fame restava sempre.

Lavoro nei servizi sociali e il mio compito è stare con le persone, ascoltarle, sostenerle, seguirle. Ma a causa della guerra al momento non posso andare a lavorare.

I bombardamenti, la paura, l’instabilità: ogni giorno si apre con una nuova tragedia, ogni giorno segna una nuova perdita.

Non c’è sicurezza. Non esiste un posto dove poter vedere e aiutare direttamente chi ne ha bisogno. Nessuna possibilità di muoversi liberamente. E la parte più straziante? Molte delle persone che seguivo — non ci sono più. Persone che conoscevo, che sostenevo a distanza o attraverso la comunicazione — ora sono solo nomi e fotografie.

I bombardamenti su Gaza non hanno soltanto distrutto edifici — hanno infranto le anime.

Hanno stravolto le nostre vite. Nulla sembra più certo — né il futuro, né persino il presente. Perfino i luoghi che un tempo consideravamo sicuri, come le chiese, non sono stati risparmiati.

La chiesa ortodossa di San Porfirio è stata colpita due volte. Ogni volta abbiamo perso qualcuno: familiari, amici, vicini.

Anche la Chiesa latina della Sacra Famiglia è stata colpita due volte. E ogni volta è stata una ferita profonda, non solo per le mura, ma anche per i nostri spiriti.

Abbiamo cominciato a sentirci come se non ci fosse più un posto sicuro. Nessuna casa. Nessuna strada. Nemmeno una chiesa.

Psicologicamente siamo esausti: stress continuo, paura, perdite senza fine.

E sembra che questo non finirà presto.

Onestamente, siamo esausti. Sfiniti. Siamo stati spinti ai limiti — emotivamente, mentalmente, fisicamente.

E il cibo? Anche se c’è, non possiamo permettercelo. I prezzi sono alle stelle. Non c’è denaro.

Stiamo sopravvivendo con cibo in scatola, e i nostri corpi non ne possono più. Sta compromettendo la nostra salute — dal punto di vista nutrizionale, fisico ed emotivo. Abbiamo mal di stomaco, le forze ci stanno abbandonando, e il dolore ora è sia dentro che fuori.

Oggi racconto tutto questo per far sentire le nostre voci: la fame non è un semplice numero e i bombardamenti non sono solo un rumore sullo schermo della TV.

Siamo persone reali, che vivono tutto questo con i nostri corpi, il nostro dolore, le nostre storie.

Fame, malattia, paura, tristezza profonda, perdita.

E io sono una di queste storie, ancora aggrappata alla vita; sopravviviamo semplicemente perché dobbiamo. Siamo persone, e vogliamo far sentire la nostra voce.

Nataly Sayegh coordina progetti sociali e pastorali per Caritas Gerusalemme, l’organizzazione caritativa della comunità cattolica in Palestina e Israele.

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