Esattamente due anni fa, miliziani di Hamas hanno attraversato il confine nel sud di Israele, uccidendo circa 1.200 persone e prendendo all’incirca 250 ostaggi. L’attacco, il più letale nella storia di Israele, ha infranto un fragile equilibrio regionale e ha innescato una massiccia risposta militare israeliana che, da allora, ha trasformato Gaza in uno dei luoghi più devastati al mondo.
In seguito, Israele ha lanciato un bombardamento senza precedenti e ha condotto una lunga campagna terrestre che prosegue, con diversa intensità, da due anni. Le operazioni hanno raso al suolo interi quartieri e hanno fatto crollare la già fragile infrastruttura di Gaza sotto il peso della guerra. Oggi le strade dell’enclave si riempiono di macerie, mentre la popolazione vive stremata e costretta allo sfollamento.
Nel suo rapporto del settembre 2025, la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite ha stabilito che Israele “sta commettendo un genocidio” e ha riscontrato “ragionevoli motivi per ritenere che le autorità israeliane abbiano commesso e continuino a commettere” atti coerenti con la definizione di genocidio.
Secondo i dati diffusi dal Ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, il conflitto ha causato oltre 67.000 morti palestinesi e quasi 170.000 feriti dall’inizio delle ostilità. Tra le vittime si contano almeno 20.000 bambini, circa 10.500 donne e non meno di 4.800 persone anziane. Israele sostiene di colpire i combattenti di Hamas. I palestinesi, invece, denunciano i bombardamenti come una punizione collettiva inflitta a oltre due milioni di persone.

La distruzione ha colpito quasi ogni aspetto della vita quotidiana. Secondo le stime delle Nazioni Unite, oltre il 90% delle abitazioni e degli edifici di Gaza ha subito danni o è stato distrutto. Scuole, luoghi di culto e strutture pubbliche giacciono in rovina. Almeno 25 dei 38 ospedali di Gaza non funzionano più e 103 centri sanitari primari su 157 risultano distrutti. L’elettricità manca, l’acqua potabile scarseggia e la maggior parte della popolazione sopravvive grazie ad aiuti alimentari intermittenti.
La situazione umanitaria resta drammatica. Più di 1,7 milioni di persone, circa tre quarti della popolazione di Gaza, hanno dovuto lasciare le proprie case. Molti vivono in tende sovraffollate o in rifugi di fortuna privi di servizi igienici, acqua corrente e assistenza medica. Le agenzie ONU hanno annunciato ufficialmente che la carestia si diffonde tra la popolazione, segnalando centinaia di morti per malnutrizione e malattie e decine di migliaia di bambini che soffrono di fame acuta.
L’economia di Gaza si trova in pieno collasso. La Banca Mondiale stima una contrazione dell’attività economica superiore all’80% dal 2023. Con fabbriche, negozi e terreni agricoli distrutti, la disoccupazione supera il 70%. Il settore privato, un tempo modesto motore occupazionale, è scomparso; la popolazione ormai dipende in larga parte dagli aiuti umanitari e dai mercati informali.
L’istruzione vive una devastazione totale. Migliaia di studenti hanno perso anni di scuola; molte strutture scolastiche ospitano famiglie sfollate. Attacchi aerei hanno ucciso insegnanti e alunni. La guerra tiene sospeso il futuro di un’intera generazione.
I tentativi di porre fine al conflitto hanno fallito più volte. Negli ultimi due anni, mediatori provenienti da Egitto, Qatar e Stati Uniti hanno promosso cessate il fuoco, scambi di prigionieri e accesso umanitario. Tregue temporanee, compresa quella della fine del 2023, hanno concesso brevi momenti di sollievo, ma nessuna ha retto. Sfiducia profonda, divisioni politiche e assenza di meccanismi di applicazione hanno bloccato ripetutamente ogni progresso.
Le richieste di pace arrivano da tutto il mondo. Papa Francesco e Papa Leone XIV hanno sollecitato più volte la fine della violenza, insieme ai patriarchi latini e ortodossi di Gerusalemme, mentre il Segretario Generale dell’ONU António Guterres ha denunciato la distruzione di Gaza definendola “una macchia sulla nostra coscienza collettiva”. I leader di Europa, Medio Oriente e mondo arabo hanno chiesto moderazione, ma le loro pressioni non sono riuscite a garantire un cessate il fuoco duraturo.
Israele continua a giustificare la guerra come una campagna necessaria contro Hamas. Il governo israeliano affronta pressioni interne e internazionali su come risolvere il conflitto, incluso che tipo di governo potrebbe sostituire la devastazione una volta che i combattimenti termineranno.
Mentre la guerra entra nel suo terzo anno, la speranza persiste — cauta ma reale. Il 29 settembre, il presidente statunitense Donald Trump ha presentato una proposta di tregua e pace in 20 punti: chiede ad Hamas di disarmarsi, liberare tutti gli ostaggi e consegnare il controllo a un’amministrazione tecnocratica, in cambio di ricostruzione, supervisione internazionale e il ritiro delle forze israeliane.
I negoziati tra Israele e Hamas sono iniziati in Egitto, nella località sul Mar Rosso di Sharm el-Sheikh, il 6 ottobre e sono proseguiti il 7 ottobre. Al momento della pubblicazione, le trattative erano ancora in corso: Hamas ha accettato di rilasciare i 40 ostaggi rimasti — si pensa che circa 20 siano ancora vivi — e di trasferire l’amministrazione di Gaza a tecnocrati palestinesi, ma ha chiesto di negoziare gli altri punti. Le reazioni internazionali sono state miste, ma in larga parte positive per i progressi nei negoziati per il cessate il fuoco. Il presidente Trump ha affermato che la risposta “dimostra l’intenzione di pace di Hamas” e ha insistito affinché le trattative proseguano in Egitto.
Gli abitanti di Gaza perseverano con un cauto ottimismo, temperato dalla memoria: i cessate il fuoco sono già falliti in passato. Per chi resta, sopravvivere è diventato allo stesso tempo resistenza e routine, e la pace per la popolazione di Gaza resta ancora un traguardo lontano.