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Nicea e l’evoluzione dell’ecumenismo

ONE Magazine è la rivista ufficiale della Catholic Near East Welfare Association (CNEWA), pubblicata regolarmente dal 1974. Attualmente, i contenuti sono disponibili solo in inglese e spagnolo. Il presente articolo esplora il Primo Concilio di Nicea e l’evoluzione dell’ecumenismo cristiano, evidenziando il cammino verso l’unità tra le Chiese.

Quest’anno la Chiesa universale celebra il 1700° anniversario del Primo Concilio di Nicea. Svoltosi tra maggio e luglio del 325 nella città romana di Nicea, nell’attuale Turchia nordoccidentale, questo raduno di vescovi e guide della Chiesa fu il primo a essere definito “ecumenico”, un termine il cui significato si è trasformato nei 1700 anni successivi. In questi diciassette secoli, infatti, la vita della Chiesa ha conosciuto eventi straordinari, ma anche pagine dolorose.

Il concilio si svolse in un periodo di profondi cambiamenti, sia nel mondo greco-romano in generale sia nella vita della Chiesa. Tra la fine del III secolo e l’inizio del IV, l’imperatore romano Diocleziano scatenò una delle persecuzioni più dure contro i cristiani nella storia dell’impero — anche se la sua violenza non si manifestò con la stessa intensità ovunque. Oltre a voler eliminare ogni minaccia alla sua autorità, Diocleziano mirava a rafforzare ulteriormente il proprio potere e a garantire la sicurezza dei confini di un impero vastissimo, che si estendeva dalla Persia alla Britannia. Per questo riorganizzò la struttura imperiale, suddividendola in quattro unità autonome: due guidate da imperatori maggiori, detti “augusti”, e due da colleghi più giovani, considerati i successori designati, chiamati “cesari”.

Nel 306, un anno dopo l’abdicazione di Diocleziano, Costantino fu proclamato imperatore dal suo esercito a Eboracum, l’attuale York in Inghilterra. Dopo una serie di guerre civili contro i suoi rivali, Massenzio e Licinio, riuscì infine ad imporsi e a diventare unico sovrano dell’Impero romano nel 324.

In quegli anni, Costantino attribuì le sue vittorie a un rapporto speciale con il Dio dei cristiani, “nel cui segno vinse”, inclusa la celebre battaglia di Ponte Milvio del 28 ottobre 312 contro Massenzio.

Così, in appena vent’anni, il cristianesimo divenne la religione favorita dall’imperatore e, di conseguenza, dall’impero. Come per Diocleziano, anche per Costantino la priorità era consolidare il potere e assicurare la stabilità dei confini. All’epoca, la dimensione politica e quella religiosa non erano affatto separate, e ogni forma di divisione o caos — che fosse politico o religioso — andava scongiurata e superata a tutti i costi.

Il Concilio di Nicea di Cesare Nebbia, 1560. Affresco sito a Roma, Biblioteca di Sisto V in Vaticano.
Nell’iconografia dell’Occidente cristiano, il rappresentante del papa, affiancato da due cardinali, guida i lavori del concilio, mentre Costantino, in primo piano, appare come spettatore informato piuttosto che protagonista attivo. (Foto di Fine Art Images/Heritage Images via Getty Images).

Tuttavia, non mancavano sfide che minacciavano l’unità dei cristiani nel suo impero. La più rilevante riguardava il sacerdote Ario, le cui dottrine negavano la piena divinità di Cristo. Non era la prima volta che Costantino si trovava a dover affrontare questioni interne al cristianesimo: già nel 314 aveva convocato il Sinodo di Arles per affrontare la controversia dei donatisti, una setta eretica diffusa in Nord Africa. Alla fine, fu proprio Costantino, senza consultare il vescovo di Roma, a decidere e convocare il primo concilio, che ebbe luogo a Nicea.

Il fatto che Costantino, non ancora battezzato, abbia convocato e presieduto il primo concilio ecumenico ha generato, nel tempo, una certa dissonanza filosofica e teologica tra il cristianesimo d’Oriente e quello d’Occidente. Questa tensione emerge in modo evidente soprattutto nell’iconografia del concilio. Nell’Oriente cristiano, dove Costantino è venerato come santo insieme a sua madre Elena, l’imperatore viene raffigurato al centro dell’icona, mentre presiede il concilio. Ai suoi lati siedono i vescovi, tutti sullo stesso piano secondo l’ordine sinodale, in vesti bizantine e con il Vangelo in mano. Ario, sconfitto, giace ai piedi dei padri del concilio.

Nell’arte occidentale, il delegato del papa siede al centro del concilio, affiancato da due cardinali. I vescovi in abiti del rito latino ascoltano e discutono mentre si leggono le eresie di Ario, che appare come se fosse sotto processo. Costantino invece viene rappresentato ai margini, più come spettatore informato che come guida dei lavori.

Questa rappresentazione occidentale risulta chiaramente anacronistica, perché applica una comprensione dei concili ecumenici sviluppata molto più tardi in Occidente.

È fondamentale comprendere come si siano sviluppati i concili ecumenici in un mondo cristiano segnato da continue divisioni. Quasi ogni concilio, incluso il Vaticano II (1962-1965), ha visto nascere dei dissidenti, alcuni dei quali sono giunti allo scisma ed esclusi — spesso per autoesclusione — dalla comunione con la Chiesa di Roma.

Pur non essendo legato direttamente a un concilio ecumenico, il reciproco atto di scomunica tra il papa e il patriarca ecumenico nel 1054, noto come Grande Scisma, segnò l’inizio della separazione formale tra l’Occidente cattolico e l’Oriente ortodosso. Proprio per questo, gli ortodossi hanno rifiutato di riconoscere come ecumenici tutti i concili generali della Chiesa cattolica successivi al 1054, data la loro mancata partecipazione. Sia dal punto di vista tecnico che da quello teologico, si tratta di un punto cruciale.

Il termine “ecumenico” indicava in origine ciò che coinvolgeva tutti i cristiani del mondo “abitato” (oikouméne, in greco), uniti nella comunione e nella stessa fede. Con il passare del tempo, però, ogni nuovo concilio “ecumenico” finì per restringere sempre più il significato della parola, rendendolo meno inclusivo.

Dettaglio di una icona
Dettaglio di un’icona ispirata alla Trinità di Rublëv: il Padre fissa lo sguardo sul Figlio. (Foto di Andreea Câmpeanu)

Nel XIX secolo, i missionari protestanti si resero conto che le divisioni quasi endemiche tra cristiani rendevano il messaggio del Vangelo meno convincente. La separazione tra cristiani non era qualcosa da accettare passivamente, ma un ostacolo da superare. Lentamente prese forma un movimento volto a ristabilire l’unità tra le Chiese.

Le due terribili guerre mondiali del XX secolo, combattute in gran parte, ma non solo, da cristiani, diedero un forte impulso a questo movimento. Tra le iniziative nate in quegli anni ci fu la fondazione del Consiglio Mondiale delle Chiese nel 1948. Con la pubblicazione nel 1964 del decreto conciliare Unitatis redintegratio, la Chiesa cattolica si impegnò in maniera chiara nella ricerca dell’unità cristiana. Eppure, accadde qualcosa di interessante.

Con l’impegno dei cristiani nella ricerca dell’unità, il termine “ecumenico” assunse un significato nuovo, opposto a quello originario. Per secoli un incontro ecumenico riguardava credenti già in comunione tra loro; oggi indica un incontro tra cristiani che non condividono ancora la comunione, ma sperano di ristabilirla. Il concilio “ecumenico” di Nicea non fu ecumenico nello stesso senso in cui lo intendono oggi i cristiani del XXI secolo.

L’obiettivo di Nicea — l’unità nella fede tra i cristiani — resta lo stesso, ma il modo di raggiungerlo è cambiato radicalmente e continua a evolversi. Papa Francesco e il patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli hanno dato un contributo decisivo a questo percorso.

Si parla di un ecumenismo fondato sull’amicizia. È chiaro che i due si stimano reciprocamente. Nessuno dei due sminuisce le differenze teologiche che li separano, né sottovaluta l’importanza del dialogo teologico continuo. Tuttavia, entrambi sanno che si può avere opinioni diverse, anche in modo marcato, e coltivare comunque un’amicizia profonda. Francesco e Bartolomeo ci dimostrano che non serve raggiungere la “piena unità” — forse un traguardo escatologico — per amarsi e lavorare insieme su ciò che ci unisce e ci sta a cuore.

Un esempio di questo nuovo stile di incontro ecumenico sono le visite annuali dei due leader. Il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, il patriarca ecumenico invia una delegazione. Questa partecipa alle celebrazioni presiedute dal vescovo di Roma. Il 30 novembre, festa di sant’Andrea, patrono di Bisanzio, il vescovo di Roma ricambia il gesto. Invia un suo rappresentante speciale per la festa patronale del patriarcato ecumenico. Oggi il patriarcato ha sede in un complesso semplice, nel cuore della vivace Istanbul, capitale culturale, economica e storica della Turchia.

1.700 anni rappresentano un arco di tempo impressionante. La storia pesa e si rischia di lasciarla dominare la celebrazione. Nicea è certamente un evento storico, ma, come molte ricorrenze religiose, non si limita a essere un fatto del passato. Nicea riguarda il passato, ma anche il presente e il futuro, come mostra l’evoluzione del significato cristiano di “ecumenico”. L’evento può indicare nuove strade e offrire ai cristiani di oggi slancio e strumenti per proseguire il cammino verso l’unità.

Il messaggio del papa in vista della visita a Costantinopoli nel 2024 è stato speciale, perché suggeriva alle due Chiese di celebrare insieme l’anniversario. Scriveva: “Il prossimo 1.700° anniversario del primo Concilio ecumenico di Nicea sarà un’ulteriore occasione per testimoniare la crescente comunione che già esiste tra tutti coloro che sono battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.”

Non si tratta solo di un gesto simbolico, sebbene abbia un forte valore significativo. È un’azione concreta che mostra non solo un autentico legame di affetto, ma anche la realtà dell’unità già esistente tra le due Chiese — un motivo di celebrazione vero e proprio.

La disputa principale al Primo Concilio di Nicea

 

Gesù pone ai suoi discepoli una domanda di fondamentale importanza: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Pietro risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).

Tuttavia, la questione sull’identità di Gesù continuava a confondere i primi cristiani, che ne offrivano interpretazioni diverse, in particolare gli insegnamenti del sacerdote Ario nella città egiziana di Alessandria.

Ario sosteneva che il Padre avesse creato Gesù dal nulla in un momento separato, rendendolo quindi subordinato al Padre. Secondo lui, Gesù non era veramente Dio, non era un essere eterno della stessa sostanza di Dio Padre esistente prima di ogni creazione.

Per risolvere questa disputa, che divideva profondamente le comunità cristiane in crescita nell’Impero romano, l’imperatore Costantino convocò nel 325 un concilio di gerarchi a Nicea, l’odierna Iztok, in Turchia.

La tradizione vuole che 318 vescovi provenienti da tutto il mondo si riunirono a Nicea, lo stesso numero degli uomini addestrati nella casa di Abramo raccontati nella Genesi.

Il concilio condannò l’arianesimo e affermò la divinità di Gesù, proclamando che egli è uguale al Padre in essere, essenza e sostanza. Questa verità della fede cristiana venne espressa nella stesura del Credo niceno, che i cristiani professano ancora oggi.

Rispondendo a questa questione fondamentale di fede, il Primo Concilio di Nicea non rappresenta un dibattito filosofico astratto del passato, ma offre una risposta ancora essenziale per tutti i cristiani oggi.

Il seguente articolo è stato tradotto dalla rivista ONE Magazine, lo puoi trovare in versione originale cliccando qui.

Padre Elias D. Mallon, frate francescano dell’Atonement, è assistente speciale del presidente di CNEWA-Pontificia Missione

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