I vescovi maroniti denunciano gli attacchi quotidiani contro il Sud e altre regioni del Libano, che riportano il paese “sull’orlo della guerra”. La loro dichiarazione arriva il 5 novembre, dopo la riunione mensile presieduta dal cardinale Bechara Boutros Rai a Bkerke. Nel testo, i vescovi invitano tutte le parti coinvolte nel processo di pace a rispettare il cessate il fuoco e a proseguire nell’attuazione della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Chiedono inoltre di non scaricare sul Libano il peso delle tensioni regionali, definendolo “l’anello più debole” della catena delle richieste di pace.
Il 30 ottobre le preoccupazioni aumentano drasticamente. Le forze israeliane entrano via terra nel Sud del Libano, uccidono un dipendente municipale a Blida e spingono il presidente Joseph Aoun a ordinare all’esercito di reagire a qualsiasi nuovo tentativo di incursione.
Il primo ministro Nawaf Salam ribadisce che il governo lavora “giorno e notte” per ottenere un ritiro totale di Israele dal paese e per conseguire il disarmo di Hezbollah. Dall’altra parte, il premier israeliano Benjamin Netanyahu afferma che Israele farà rispettare il cessate il fuoco “con il pugno di ferro”.
Anche l’arcivescovo maronita Charbel Abdallah, intervistato dalla rivista ONE di CNEWA, esprime grande apprensione: “Non riusciamo a vivere in pace né a sentirci al sicuro.”

Libano e Israele raggiungono un cessate il fuoco il 27 novembre 2024, dopo tre mesi di guerra totale. L’accordo chiede al Libano di sequestrare le armi di Hezbollah nel Sud entro la fine del 2025. Gli Stati Uniti e Israele aggiungono poi nuove richieste, inclusi colloqui diretti e una scadenza più stringente.
Il presidente Aoun accetta i negoziati, mentre Hezbollah rifiuta di abbandonare le armi e ribadisce che l’accordo riguarda solo il territorio a sud del fiume Litani. L’organizzazione chiede inoltre a Israele di ritirarsi completamente dal Libano e di liberare i prigionieri.
Intanto, gli attacchi continuano. Dopo il cessate il fuoco, Israele compie quasi ogni giorno raid aerei nel Sud e nella Valle della Bekaa e colpisce, a tratti, anche le periferie di Beirut. Solo il 10 novembre registra quindici attacchi.
Secondo l’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, questi bombardamenti uccidono 108 civili tra novembre 2024 e ottobre 2025.
Il vescovo maronita Hanna Rahme accompagna una comunità di 80.000 fedeli nella Valle della Bekaa. Descrive una popolazione stremata: “Molti vivono già in condizioni difficili a causa della crisi economica. Ogni nuova tensione riaccende le loro paure.”
Padre Jad Chebli, gesuita e cappellano dell’Università San Giuseppe di Beirut, conosce bene la fragilità del paese. Ha vissuto più conflitti in prima persona e non si sorprende dell’attuale instabilità.

Durante la guerra totale dell’anno scorso, ha coordinato l’accoglienza di 350 sfollati a Bikfaya, dove ha garantito pasti, riparo, scuola e sostegno psico-spirituale. Nel dicembre 2024, quando le famiglie iniziano a rientrare nel Sud, consiglia loro di lasciare a Bikfaya la biancheria da letto “nel caso dovessero tornare”.
Padre Chebli descrive con lucidità lo stato d’animo del paese: “Il popolo libanese è fragile. Non possiamo separare la situazione di oggi dalla pandemia, dalla crisi economica e dall’esplosione del porto del 2020.”
Aggiunge che la guerra ha prosciugato le risorse della Chiesa, ma afferma che, in caso di nuova emergenza, la comunità cristiana darebbe ancora una volta tutto ciò che può: “Metteremo la nostra fiducia nella Provvidenza.”
Il vescovo Rahme ricorda anche un segno concreto di speranza: durante la guerra, molte famiglie cristiane hanno accolto nelle loro case famiglie sciite sfollate, un gesto che ha migliorato i rapporti tra comunità diverse in tutta la sua eparchia.
“È stato faticoso, ma anche molto fruttuoso, perché ha unito le persone”, racconta.
E oggi, lo stesso vescovo invita a continuare su quella strada: “Diventiamo artigiani di pace, a partire dal nostro cuore, dalle nostre famiglie e dalle nostre comunità.”
Un messaggio che riprende la visita di Papa Leone XIV, atteso in Libano dal 30 novembre al 2 dicembre: “Beati gli operatori di pace”.
Molti libanesi vedono questa visita come un segno di protezione e speranza concreta che il paese non precipiti di nuovo in una guerra totale.
L’arcivescovo Abdallah, la cui arcieparchia comprende 14.000 famiglie, invita tutti a unirsi in preghiera per questo momento atteso da mesi: “Preghiamo perché l’arrivo del papa diventi un momento in cui raccogliamo frutti di pace.”